Quale risarcimento in caso di licenziamento (illegittimo) dei nuovi lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti”?
Come noto il Jobs Act (nello specifico, il d.lgs. n. 23/2015) ha introdotto uno spartiacque tra vecchi e nuovi assunti a tempo indeterminato: l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (l. n. 300/1970), infatti, rimane invocabile solo in caso di licenziamento illegittimo di coloro che sono stati assunti prima del 7 marzo 2015, applicandosi invece ai nuovi assunti – con contratto c.d. a tutele crescenti – un diverso regime di tutela di natura prevalentemente risarcitoria.
Di seguito cercheremo di illustrare come la sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 26 settembre – 8 novembre 2018 abbia inciso sul meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta dal datore di lavoro in caso di licenziamento illegittimo del lavoratore assunto dal 7 marzo 2015, così come introdotto dalla riforma del Jobs Act.
Quali tutele prevede (o meglio, prevedeva) il Jobs Act in caso di licenziamento illegittimo, discriminatorio o nullo?
Poco è cambiato in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale. Nei predetti casi il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre ad un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello di effettiva reintegrazione, con un minimo di cinque mensilità (art. 2, d.lgs. n. 23/2015).
La tutela reintegratoria spetta infine nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa – anche detti licenziamenti disciplinari – in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore; in questi casi, tuttavia, l’indennità economica spettante al lavoratore non può superare le dodici mensilità (art. 3, 2° comma).
La reintegrazione nel posto di lavoro è stata invece eliminata per i licenziamenti c.d. economici, ossia intimati per giustificato motivo oggettivo, nonché per i licenziamenti disciplinari rispetto ai quali non è dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato (v. sopra). La legge, in questi casi, assicura al lavoratore illegittimamente licenziato solamente un’indennità risarcitoria di tipo economico, calcolata mediante un meccanismo rigido e automatico: ossia un importo pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità (art. 3, 1° comma, come modificato dal d.l. n. 87/2018, c.d. Decreto Dignità).
Nella stragrande maggioranza dei casi di licenziamento, pertanto, il Jobs Act prevede in favore del lavoratore un risarcimento di tipo esclusivamente economico, determinato secondo l’unico criterio dell’anzianità di servizio. Questo, almeno, fino alla pronuncia di illegittimità costituzionale – parziale – dell’art. 3, 1° comma, d.lgs. n. 23/2015.
E per chi lavora alle dipendenze di piccole aziende?
I lavoratori illegittimamente licenziati da imprese fino a 15 dipendenti possono chiedere la reintegrazione nel posto di lavoro solo in caso licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale. In tutti gli altri casi il d.lgs. 23/2015 prevede il diritto ad una mera indennità economica pari ad una mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a sei mensilità (art. 9, 1° comma).
La Corte Costituzionale ha modificato tuttavia il meccanismo di calcolo del risarcimento in favore dei lavoratori licenziati anche con riferimento alle piccole imprese.
Cosa cambia per i nuovi assunti – illegittimamente licenziati – in seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018?
Quello che la Corte Costituzionale ha censurato è il meccanismo di quantificazione del risarcimento previsto in caso di licenziamenti per giustificato motivo o per giusta causa dichiarati illegittimi cui non fa seguito la reintegrazione nel posto di lavoro (art. 3, 1° comma, d.lgs. n. 23/2015: “due mensilità [una per le piccole imprese] per ogni anno di servizio”).
Questo meccanismo, a giudizio della Corte, crea un’indennità risarcitoria rigida che contrasta con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., poiché parifica ingiustamente situazioni diverse.
Detto in altre parole, ogni licenziamento, così come il danno che procura al lavoratore, è diverso dall’altro; la legge, di conseguenza, non può imporre un trattamento economico uguale (a parità di anzianità di servizio) per tutti i lavoratori ingiustamente licenziati.
Il giudice come deve determinare il risarcimento del danno subito dal lavoratore con contratto a tutele crescenti illegittimamente licenziato?
La Corte Costituzionale non parla di quantificazioni, ma impone al legislatore di prevedere un risarcimento “adeguato” e “ragionevole”. Il Jobs Act nella parte in cui determina l’indennità nella misura fissa di due o una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, non costituisce, ad avviso della Corte, un adeguato ristoro del danno prodotto dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro (ciò soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata).
Alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale, il giudice chiamato a determinare l’indennità risarcitoria in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa è vincolato ora dal solo limite minimo di sei e da quello massimo di trentasei mensilità di retribuzione. All’interno di questa forbice il giudice dovrà tenere conto innanzitutto dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonché degli ulteriori criteri desumibili dalle altre norme in materia di licenziamento, ossia del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa e dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.
Anche il lavoratore assunto da pochi mesi, pertanto, potrà richiedere con l’assistenza di un avvocato specializzato in diritto del lavoro una congrua indennità, tale da risarcire in maniera adeguata il danno subito a seguito di un licenziamento ingiustificato.
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, anche i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 potranno sempre richiedere la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo?
No, secondo la Corte Costituzionale “il legislatore – in questo caso del Jobs Act – ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario, purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza”.
La reintegrazione per i nuovi assunti, di conseguenza, rimane confinata alle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale, nonché nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato.
Sussiste una disparità di trattamento tra lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 e quelli assunti prima di tale data?
La risposta al quesito in oggetto non può che essere positiva. Il regime di tutela dell’art. 3, 1° comma, d.lgs. n. 23/2015, applicabile agli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, è meno favorevole di quello dell’art. 18 St. Lav., applicabile, invece, ai lavoratori assunti in precedenza.
L’art. 18 St. Lav., infatti, prevede la tutela specifica della reintegrazione nel posto di lavoro anche nei casi di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” (7° comma), nonché, nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, nei casi di “insussistenza del fatto contestato” e nei casi in cui tale fatto “rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa” (4° comma).
La sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale ha comunque limato questa disparità di trattamento, sebbene al prezzo di eliminare quella “certezza della pena” tanto agognata dalla Riforma del 2015.
Nel contesto attuale, quindi, i giudici del lavoro godono di ampia discrezionalità nel determinare la misura del risarcimento a seguito di licenziamenti illegittimi, rendendo quanto mai opportuna l’assistenza di un avvocato specializzato in diritto del lavoro per ottenere – o, nel caso di imprese, per limitarsi a – una tutela, appunto, congrua ed adeguata.
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N.B. NUOVA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 150 DEL 16 LUGLIO 2020.
La Corte Costituzionale è intervenuta nuovamente sul testo del d.lgs. n. 23/2015, dichiarando l’illegittimità del meccanismo rigido e automatico di determinazione dell’indennità dovuta a fronte di licenziamenti affetti da vizi formali o procedurali (assenza di motivazione; violazione della procedura di cui all’art. 7 St. Lav.).
L’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015, nei summenzionati casi di licenziamento, quantificava l’indennità in misura pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici.
Le motivazioni della sentenza sono pressoché le medesime di cui alla precedente pronuncia n. 194/2018; il Giudice, d’ora in avanti, dovrà tenere conto, anche nei casi di licenziamento intimato con vizi formali o procedurali, di altri criteri, quali la gravità delle violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti.