La riforma del mercato del lavoro attuata con il Jobs Act ha rappresentato un punto di svolta nel sistema giuslavoristico italiano, modificando profondamente l’equilibrio tra flessibilità occupazionale e tutele dei lavoratori. Il dibattito su questa riforma continua ad animare gli ambienti accademici, sindacali e imprenditoriali, evidenziando la complessa relazione tra diritti individuali e competitività economica. L’illegittimità del licenziamento rappresenta uno degli aspetti più controversi e tecnicamente articolati della nuova disciplina, imponendo ai professionisti del settore un’approfondita conoscenza delle pronunce giurisprudenziali che ne hanno progressivamente ridefinito i contorni. La corretta qualificazione giuridica del recesso risulta determinante per individuare le tutele applicabili nel caso concreto.

 

Illegittimità del licenziamento: il quadro normativo del Jobs Act e l’evoluzione delle tutele crescenti

Il Jobs Act (D.Lgs. n. 23/2015) ha radicalmente modificato il sistema di tutele in caso di illegittimità del licenziamento per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015. Questa riforma ha sostituito l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori con un regime di tutele crescenti basato principalmente sull’anzianità di servizio.

Il sistema prevede diverse protezioni a seconda della tipologia di licenziamento: nei casi di licenziamento discriminatorio o nullo permane la tutela reintegratoria piena, mentre per i licenziamenti disciplinari o economici illegittimi la norma privilegia la tutela indennitaria.

L’impianto originario è stato significativamente modificato da importanti interventi: il Decreto Dignità (D.L. n. 87/2018) ha innalzato i limiti minimi e massimi delle indennità risarcitorie, mentre la Corte Costituzionale ha ampliato i parametri di calcolo dell’indennità (sentenza n. 194/2018) e ha esteso la tutela reintegratoria in alcune fattispecie (sentenza n. 128/2024).

Nel caso di licenziamento dipendente da motivi economici dichiarato illegittimo, le tutele variano dall’indennità risarcitoria alla reintegrazione, a seconda che il fatto posto a base del recesso sia insussistente o meno. Vediamo quindi le varie casistiche nel dettaglio.

Licenziamento discriminatorio o nullo: la tutela reintegratoria piena e le indennità previste dal D.Lgs. 23/2015

In caso di licenziamento discriminatorio o nullo, il D.Lgs. 23/2015 prevede il massimo livello di protezione per il lavoratore attraverso la tutela reintegratoria piena. L’illegittimità del licenziamento è riconosciuta quando il recesso è motivato da ragioni di discriminazione (razziale, religiosa, politica, di genere), ha carattere ritorsivo o viola altre norme imperative.

In queste ipotesi, l’art. 2 del decreto stabilisce che il giudice ordini la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni aziendali. Il lavoratore ha diritto a un’indennità risarcitoria corrispondente alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, in ogni caso non inferiore a 5 mensilità. È previsto anche il versamento dei contributi previdenziali per l’intero periodo.

In alternativa alla reintegra, il lavoratore può optare per un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR.

La stessa tutela si applica nei casi di licenziamento intimato in forma orale o motivato dalla disabilità del lavoratore. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 22/2024, ha inoltre precisato che la tutela reintegratoria piena spetta a fronte di licenziamenti riconducibili ad ogni altro caso di nullità previsto dalla legge, anche se non in maniera espressa.

Questo regime sanzionatorio si applica anche nelle piccole imprese, a prescindere quindi dalla loro dimensione occupazionale. 

Licenziamento disciplinare illegittimo: differenze tra insussistenza del fatto materiale e sproporzione della sanzione

Abbiamo quindi visto che il licenziamento disciplinare illegittimo nel regime del Jobs Act è soggetto a un sistema di tutele diversificato in base alla natura del vizio che lo inficia. L’art. 3 del D.Lgs. 23/2015 distingue due fattispecie fondamentali.

Nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, la legge prevede la tutela reintegratoria attenuata. Questo si verifica quando il fatto non è mai accaduto o quando, pur verificatosi, è privo di rilevanza disciplinare. Il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e a un’indennità risarcitoria fino a 12 mensilità, oltre ai contributi previdenziali. La stessa tutela si applica nel caso in cui il fatto disciplinare è sussistente ma è punito espressamente con una sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva (Corte Costituzionale n. 129/2024).

Diversamente, quando il licenziamento è viziato da sproporzione rispetto alla condotta contestata, si applica la sola tutela indennitaria da 6 a 36 mensilità. In questo caso, il fatto materiale sussiste ed è disciplinarmente rilevante, ma non è grave abbastanza da giustificare la massima sanzione.

La giurisprudenza ha chiarito che anche la qualificazione giuridica del fatto rientra nel giudizio di sussistenza (Cassazione n. 12174/2019), mentre la Corte Costituzionale, con sentenza n. 194/2018, ha ampliato i criteri di determinazione dell’indennità, non limitandola alla sola anzianità di servizio (vanno oggi considerati anche il numero dei dipendenti occupati dall’azienda, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti).

 

Licenziamento per motivi economici: tutele in caso di fatto insussistente e violazione dell’obbligo di repechage

Il licenziamento per motivi economici, tecnicamente definito per giustificato motivo oggettivo, è disciplinato dal D.Lgs. 23/2015 con un sistema di tutele differenziato in base alla gravità del vizio che lo affligge.

Secondo l’art. 3, comma 2, nel caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del recesso (ad esempio, inesistenza della crisi economica dichiarata), il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro. A questa si aggiunge un’indennità risarcitoria fino a un massimo di 12 mensilità e il versamento dei contributi previdenziali dal licenziamento alla reintegra.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 128/2024, ha infatti esteso la nozione di insussistenza del fatto, includendo situazioni prima escluse dalla tutela reintegratoria.

Diversamente, in caso di violazione dell’obbligo di repechage (la possibilità di ricollocare il lavoratore in posizioni alternative disponibili in azienda), è prevista solo una tutela indennitaria che spazia da 6 a 36 mensilità di retribuzione, calcolata in base a parametri come anzianità di servizio, dimensioni aziendali e comportamento delle parti.

Questa distinzione evidenzia la volontà del legislatore di limitare la reintegrazione ai soli casi di assoluta infondatezza del licenziamento.

Vizi procedurali del licenziamento: conseguenze sanzionatorie per l’omessa motivazione e l’inosservanza dell’iter

I vizi procedurali rappresentano difetti nella forma o nella procedura con cui è intimato il licenziamento, pur in presenza di una giustificazione sostanziale. L’art. 4 del D.Lgs. 23/2015 disciplina questa fattispecie prevedendo una tutela esclusivamente indennitaria.

La norma si applica in due principali situazioni: omessa motivazione del licenziamento (violazione dell’obbligo ex art. 2, L. 604/1966) e violazione della procedura disciplinare (mancato rispetto dell’iter previsto dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori).

In questi casi il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore a pagare un’indennità risarcitoria compresa tra 2 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR, in base all’anzianità di servizio e ad altri parametri sopra indicati.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 150/2020, ha infatti esteso anche a questa fattispecie l’applicazione dei criteri di determinazione dell’indennità già stabiliti per i licenziamenti illegittimi nel merito. Un Avvocato del Lavoro Firenze esperto può contestare efficacemente questi vizi procedurali, ottenendo un ristoro economico anche quando il licenziamento risulti sostanzialmente legittimo.

 

Licenziamento intimato da piccole imprese: il regime speciale per datori di lavoro sotto soglia dimensionale

Il D.Lgs. 23/2015 prevede un regime sanzionatorio attenuato per i datori di lavoro di dimensioni ridotte che impiegano fino a 15 dipendenti nella singola unità produttiva e non più di 60 complessivamente nell’intera azienda.

L’art. 9 del decreto stabilisce che, in caso di licenziamento illegittimo intimato da questi soggetti, non si applica mai la tutela reintegratoria, fatta eccezione per i licenziamenti discriminatori o nulli. Il giudice dichiara l’estinzione del rapporto di lavoro e condanna il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria compresa tra 3 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR.

Questa tutela si applica indipendentemente dalla tipologia di licenziamento (disciplinare o economico) e dalla gravità del vizio che lo affligge. L’indennità è dimezzata rispetto a quella prevista per le aziende di maggiori dimensioni, riflettendo la volontà del legislatore di alleggerire gli oneri per le piccole realtà imprenditoriali.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 183/2022, ha chiarito che anche per le piccole imprese l’indennità deve essere determinata considerando anche altri parametri oltre all’anzianità di servizio, come il comportamento delle parti e le dimensioni dell’attività economica.